“Caro papà, mi hanno fatto scrivere le coordinate per il mio riscatto sono stremata aiutami se puoi fai presto”. E’ trascorso mezzo secolo da quando Cristina Mazzotti, rapita a 18 anni, ha scritto queste parole all’amato padre, spinta dai sequestratori che l’avevano rapita la sera del primo luglio 1975.
Segregata in una buca lunga 2,5 metri e larga meno di 2, con un piccolo tubo di plastica per farle arrivare l’aria, Cristina si spegne lentamente, un giorno dopo l’altro. Nella lettera successiva, emerge tutto il dramma della sua condizione. “Ho tanta paura, sto male e soffoco. Non mi hanno mai fatto niente ma se non paghi subito mi uccideranno. Fai presto, voglio rivedervi tutti ma non ne posso più”.
Cristina non rivedrà più i suoi cari, che mezzo secolo dopo ancora aspettano di conoscere tutta la verità e di avere giustizia. Le lettere scritte dalla 18enne sono state depositate tra gli atti del processo che dal settembre scorso si sta celebrando in Corte d’Assise a Como. Fanno parte della corposa mole di documenti che sarà analizzata per arrivare ad una nuova sentenza, a cinquant’anni di distanza dal sequestro e dall’omicidio della ragazza, rapita la sera del primo luglio 1975 mentre tornava a casa, con il fidanzato e un’amica, nella villa di famiglia a Eupilio e ritrovata senza vita due mesi dopo in una discarica in provincia di Novara.
Domani in tribunale a Como il pubblico ministero Cecilia Vassena, magistrato della Direzione Distrettuale Antimafia di Milano che rappresenta l’accusa terrà la sua requisitoria davanti alla Corte d’Assise presieduta da Carlo Cecchetti. Tirerà le sue conclusioni sugli imputati, Giuseppe Calabrò, Antonio Talia e Demetrio Latella, accusati di sequestro di persona a scopo di estorsione e omicidio, in concorso, aggravato dalla crudeltà, dai motivi abbietti, dalla minorata difesa della vittima. Di Cristina e delle sue ultime parole mentre la vita si spegne a 18 anni: “Voglio rivedervi tutti, vi abbraccio”.